Articolo dell’avvocato Stefano Mazziotti di Celso
Ciascun lavoratore ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. La durata di tale periodo è stabilita dalla legge, dagli usi o secondo equità.
Tale regola codicistica (art. 2109 c.c.) va letta in combinato disposto con l’art. 10 del Decreto legislativo n. 66/2003, il quale prevede che “il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo, salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva, va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel corso dell’anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione”.
Oltre alle ferie, tra gli ineludibili diritti legislativamente previsti in favore dei lavoratori vi è quello alla c.d. conservazione del posto di lavoro durante la malattia. In base all’art. 2110 c.c., infatti, il rapporto viene sospeso durante la malattia e il datore non può licenziare il dipendente malato se non sia scaduto il cosiddetto “comporto”, ovvero il termine di conservazione del lavoro così come contrattualmente previsto dai singoli CCNL di categoria.
Tra malattia e ferie non sussiste un’incompatibilità assoluta, nel senso che il lavoratore assente per malattia ha senz’altro la facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, se del caso anche allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto.
Può capitare e capita, infatti, nell’esperienza pratica dei rapporti di lavoro che un lavoratore assente da molto tempo per malattia, in vista dell’appropinquarsi della scadenza del periodo di comporto (e del conseguente rischio di subire il relativo licenziamento datoriale), provi a sostituire quale titolo della propria assenza dal lavoro la fruizione delle ferie maturate e non godute alla malattia stessa, al chiaro scopo di interrompere il decorso del periodo di comporto. In altri termini, il dipendente può chiedere al datore di lavoro di convertire la propria assenza per malattia in ferie.
Trattasi di una facoltà pienamente rientrante tra i diritti dei lavoratori, alla quale però non corrisponde giuridicamente un obbligo incondizionato in capo al datore di lavoro di assecondare la (legittima) richiesta del dipendente. Il datore di lavoro, infatti, resta titolare del potere, conferitogli dalla legge, di stabilire la collocazione temporale delle ferie del lavoratore nell’ambito annuale, armonizzando le esigenze dell’impresa con gli interessi del medesimo dipendente. Nel caso in questione, però, la parte datoriale non può non essere tenuta ad una considerazione e valutazione più ampia, specifica e complessiva della delicata posizione in cui si trova il lavoratore richiedente, il quale è evidentemente esposto al serio rischio di perdere il posto di lavoro una volta superato il periodo di comporto.
Come spesso accade nel mondo del lavoro, di fronte ad un simile potenziale conflitto tra diritti contrapposti (quelli datoriali al libero esercizio delle proprie iniziative di impresa e quelli del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro) in un’ottica di bilanciamento degli interessi confliggenti, soccorrano le clausole generali della correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, le quali trovano formulazione positiva negli articoli 1175 e 1375 c.c. e che costituiscono un limite all’esercizio del potere del datore di lavoro.
La Corte di Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 19062 del 14.9.2020 e poi ancor più recentemente con l’ordinanza n. 26697 del 21.09.2023, ha affermato al riguardo il principio per cui il datore di lavoro è legittimato a negare le ferie richieste dal lavoratore per evitare il superamento del comporto solo ed esclusivamente qualora sussistano comprovate ed effettive ragioni organizzative di natura ostativa.
Ciò significa, quindi, che in assenza della dimostrazione datoriale della sussistenza delle reali e concrete ragioni aziendali ostative alla concessione delle ferie residue richieste dal dipendente a copertura dell’assenza, la condotta del datore di lavoro che provveda al susseguente licenziamento del lavoratore per superamento del periodo di comporto, deve essere giudicata contraria ai principi di correttezza e buona fede e l’atto risolutivo del rapporto di lavoro deve essere giudicato conseguentemente illegittimo.