Articolo dell’avvocato Angelo Fricchione
Il potere datoriale di modifica della sede di lavoro è disciplinato dall’art. 2103 c.c. comma 8 il quale prevede espressamente che: “Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.
La formulazione letterale della disposizione rende evidente prima di tutto che la modifica del luogo di lavoro non è rimessa alla discrezione/arbitrio del datore di lavoro e non è possibile sempre; la legittimità del trasferimento, infatti, deve essere supportata da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Il trasferimento del lavoratore, quale vicenda modificativa del luogo di lavoro, è in grado di mettere in gioco interessi potenzialmente confliggenti: da un lato, quello tecnico-produttivo-organizzativo del datore ad una gestione, sana ed efficiente, della forza lavoro nell’ottica di una più proficua utilizzazione spaziale del dipendente, dall’altro lato, quelli familiari-sociali del lavoratore, incidendo il trasferimento sulla relativa sfera familiare, relazionale ed esistenziale, specie quando comporta il cambio di residenza.
Il bilanciamento dei contrapposti interessi coinvolti è perseguito, sul piano normativo, attraverso il comma 8 dell’art. 2103 c.c. che, nel sancire il divieto datoriale di trasferire il lavoratore “se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”, contiene una clausola generale volta a delimitare l’area di esercizio di quel potere a tutela del contrapposto interesse personale del lavoratore a non essere ‘sradicato’ dal centro delle sue relazioni di lavoro, sociali e affettive.
Il legislatore, in tal modo, nel prevedere a fondamento del provvedimento le “comprovate” ragioni, ha voluto confermare l’intento normativo di irrigidire (senza, tuttavia, comprimerlo integralmente) l’esercizio del potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro al fine di salvaguardare il lavoratore da un uso potenzialmente distorto ed arbitrario dello stesso.
Tra i vari motivi che possono determinare la modifica del luogo di lavoro, c’è anche quello legato al mancato gradimento del Committente.
La previsione, oramai frequentemente utilizzata nei contratti d’appalto, della “clausola di non gradimento” è uno strumento che può essere legittimamente previsto e disciplinato; il contratto, quindi, potrà contenere una disposizione con la quale il committente si riserva di chiedere l’estromissione dal proprio cantiere di uno o più dipendenti dell’azienda appaltatrice.
Tale fattispecie di trasferimento rientra fra quelli effettuati per incompatibilità aziendale e trova la sua causa nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva e va ricondotto a esigenze tecniche, organizzative e produttive, previste dall’art. 2103 c.c.
In linea di principio, si tratta dell’esercizio di un diritto pienamente legittimo e compatibile con il sistema giuslavoristico, atteso che è uno strumento posto a rimedio di uno stato di disfunzione che si potrebbe creare nell’unità produttiva. Trattandosi di personale che opera nei luoghi di lavoro del committente, ma sul quale lo stesso non ha alcun potere, la clausola di non gradimento attribuisce la possibilità di richiedere al proprio contraente la sostituzione di persone che non soddisfano le proprie esigenze (cfr. Cass. Civ. sez. l. n. 4265/2007; Trib. Bologna ordinanza del 17.12.2018; Trib. Milano ordinanza del 10.8.2011; Trib. Latina 10.11.2020).
Tuttavia, al fine di evitare distorsioni nell’utilizzo, costituisce onere dell’appaltatore datore di lavoro verificare che l’esercizio del non-gradimento sia fondato su comprovate motivazioni e, comunque, rispettoso dei canoni di buona fede e correttezza.
L’esercizio in concreto di una siffatta clausola, infatti, deve essere pur sempre ispirato a correttezza e buona fede; diversamente, il contratto di appalto assurgerebbe, rispetto alla posizione dei singoli dipendenti, ad un vero e proprio “contratto a danno di terzi” (come chiarito anche da numerose pronunce di merito e di legittimità). Ciò anche in considerazione dell’insegnamento della Corte Costituzionale che nella sentenza n. 194/2018 ribadisce il diritto del lavoratore a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente.
Le mere valutazioni soggettive del committente, infatti, non integrano una ragione rientrante nel disposto dell’art. 2103 c.c.
In caso contrario, si attribuirebbe rilevanza al fatto in sé del non gradimento a prescindere da un fatto materiale oggettivo e da condotte integranti una giusta causa (rectius comprovate ragioni), quale esclusiva conseguenza dell’avere il datore di lavoro, nel suo rapporto commerciale con la committente, riconosciuto alla stessa ampio potere di sindacato non solo sulla qualità del servizio reso, ma addirittura sui lavoratori che lo forniscono.
Risulta principio consolidato in giurisprudenza che il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell’impresa.
A tal proposito si segnala una recente pronuncia della Sezione Lavoro del Tribunale di Monza chiamata a confermare o meno la legittimità del trasferimento di una lavoratrice, a seguito del mancato gradimento espresso dalla Committente, basato sulla motivazione di “continui e ripetuti comportamenti non ritenuti idonei”.
Il Tribunale di Monza, accogliendo il ricorso della dipendente, evidenziava che, a fondamento del trasferimento, vi era una motivazione totalmente generica “non risultandovi in alcun modo specificati i comportamenti inidonei all’origine dell’espressione di non gradimento, sicché risulta impossibile sulla scorta della stessa accertare se l’allontanamento della lavoratrice dalla struttura sia stato effettivamente determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive oggettive, piuttosto che da un giudizio soggettivo sulla sua persona” (Tribunale di Monza – Sezione lavoro, sentenza n. 160/2023).
In sostanza, ferma restando la libertà dell’iniziativa economica privata garantita dall’art. 41 Cost. e l’intangibilità nel merito della scelta operata dall’imprenditore, il vaglio di legittimità del provvedimento datoriale non può prescindere, anzitutto, dalla sussistenza di comprovate e non generiche ragioni di carattere tecnico, organizzativo e produttivo che possono essere indicate anche solo in sintesi nell’atto che ha disposto il trasferimento e integrate successivamente dopo la richiesta del prestatore di lavoro, incombendo sul datore di lavoro l’onere probatorio di dimostrare, in caso di contestazione, la sussistenza di quelle specifiche ragioni che hanno determinato il trasferimento.