Articolo degli avvocati Carla Sodano e Stefano Mazziotti di Celso
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, intimato per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, deve – come noto – configurarsi come “extrema ratio”, stante cioè l’impossibilità di collocare fruttuosamente il dipendente in azienda per lo svolgimento di eventuali mansioni alternative di livello pari o inferiore a quello di appartenenza. Nella sede giudiziale, spetta al datore di lavoro dimostrare che al momento del licenziamento era stata effettuata la verifica in concreto della insussistenza di posizioni libere da assegnare al dipendente, pena la declaratoria di illegittimità del recesso.
In relazione al predetto obbligo datoriale, definito in giurisprudenza “di repêchage”, la Corte di Cassazione Sez. lavoro, con la recentissima sentenza n. 12132 dell’8 maggio 2023, ha statuito che “Il giudice del merito deve considerare adempiuto l’obbligo di repêchage solo se il datore ha tenuto in considerazione anche l’assenza di posizioni lavorative di prossima liberazione nel contesto aziendale e di possibile assegnazione per il lavoratore “licenziando”. In particolare, nella parte motiva si legge che: “il datore di lavoro, nel valutare le possibilità di ricollocazione del lavoratore prima di procedere al suo licenziamento, debba prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora coperte, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso”.
Tale pronuncia costituisce un precedente da tenere in debita considerazione ai fini delle future scelte datoriali in tema di licenziamento per g.m.o., dal momento che la stessa impone alle aziende – prima di dar corso al recesso – di non limitarsi più ad analizzare il quadro fattuale cristallizzatosi al momento della risoluzione del rapporto di lavoro, ma di estendere l’arco temporale di riferimento ad un “periodo di tempo successivo al recesso”, definito genericamente dalla Cassazione come “congruo” o “assai breve”.
In altri termini, le parti datoriali saranno costrette ad effettuare una valutazione ulteriore e di tipo prognostico rispetto a vicende aziendali non più solo presenti, ma anche future e spesso incerte, talvolta indeterminabili o, peggio ancora, imprevedibili.
L’imposizione di un simile onere “aggiuntivo” in capo al datore di lavoro sembra comprimere la libertà di iniziativa economica costituzionalmente garantita, ingenerando inevitabilmente sulla parte datoriale un senso di insicurezza ed attribuendo ad ogni licenziamento per g.m.o. un imponderabile margine di rischio.
Un simile principio di diritto assume un significato ancor più pregnante per le parti datoriali se solo si considera che la medesima Suprema Corte, sempre recentemente (con l’ordinanza n. 33341 del 11.11.2022, successiva alla pronuncia della Corte Costituzionale espressasi sulla illegittimità dell’art. 18, comma 7 della L. 300/1970, come riformato dal Jobs Act), ha affermato che in caso di violazione dell’obbligo di repêchage, la tutela giudiziale spettante al lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo è la reintegra.
Dal combinato disposto delle suddette statuizioni emerge che l’attuale orientamento giurisprudenziale si diriga verso una prospettiva di maggiore tutela della parte contrattuale “debole” del rapporto di lavoro, ponendo viceversa a carico dei datori di lavoro dei nuovi margini di rischio, e ciò sia in termini di “incertezza” del diritto che di tipo prettamente economico.
Non può, inoltre, non rilevarsi che la logica conseguenza di una situazione di tale indeterminatezza non può che essere un aumento del numero dei contenziosi, dal momento che l’onere probatorio incombente sul datore di lavoro diviene ancor più difficilmente sostenibile.