Articolo del Dott. Nicola Iuorno
In mancanza di diversa convenzione matrimoniale, il regime patrimoniale della famiglia è
costituito dalla comunione dei beni che comporta la contitolarità e la cogestione degli acquisti
compiuti, anche separatamente, durante il matrimonio o l’unione civile.
Con tale regime si è inteso, per un verso, garantire l’uguaglianza delle sorti economiche dei
coniugi in relazione agli eventi verificatisi dopo il matrimonio e, per altro verso, assicurare una
certa autonomia a ciascun coniuge.
In questo contesto, il legislatore ha previsto, accanto ai beni che ricadono in comunione
immediata, una serie di beni che ricadono nella c.d. comunione de residuo.
Detti beni, elencati dall’art. 177 lett. B e lett. C nonché dall’art. 178 c.c., non cadono
immediatamente in comunione, ma vi rientrano ai soli fini della divisione, se e nei limiti in cui
sussistono al momento dello scioglimento della stessa.
Proprio la natura giuridica della c.d. comunione de residuo ha assunto particolare rilevanza sia in
Dottrina che in Giurisprudenza.
Sulla questione, nel corso degli anni, si sono infatti fronteggiati due diversi orientamenti
giurisprudenziali.
Secondo un primo orientamento, al momento dello scioglimento della comunione legale dei beni,
al coniuge non imprenditore spetterebbe soltanto un diritto di credito pari alla metà del valore dei
beni che fanno parte della comunione de residuo (Cfr. Cass. n. 7060/1986 e Cass. n. 4533/1997).
A favore della richiamata tesi, la Dottrina ha evidenziato che oggetto della comunione de residuo
non sono solo somme di denaro ma anche beni, sia mobili che immobili e pertanto affermare
l’automatico venire in essere di una situazione di contitolarità reale in capo a tali cespiti potrebbe
creare problemi insormontabili nei rapporti con i terzi, i quali potrebbero non avere
consapevolezza dell’esistenza di ragioni che determinano l’assoggettamento del bene alla c.d.
comunione di beni.
Secondo un diverso orientamento, al coniuge non imprenditore spetterebbe in realtà un diritto
reale sui beni in comunione de residuo (Cfr. Cass. n. 19567/2008 della Sezione tributaria).
I fautori della tesi appena richiamata troverebbero invece un forte argomento nella formulazione
letterale delle norme, dalle quali non sarebbe dato ricavare una esplicita previsione circa la
natura creditizia della comunione residuale sciolta, stante anche l’assenza di una specifica
previsione nell’art. 192 c.c., che regola i rimborsi e le restituzioni da effettuare allo scioglimento
della comunione.
Peraltro, accertare se si tratti di un diritto reale ovvero di un diritto di credito diviene rilevante
non solo per la posizione dei coniugi, ma anche, e forse in maniera ancora più significativa, nei
rapporti con i terzi, e soprattutto con i creditori del coniuge imprenditore, e ciò in particolare nel
caso in cui la situazione debitoria abbia infine determinato l’insorgenza di una procedura
concorsuale.
Il panorama della dottrina e della giurisprudenza come appena offerto consente di affermare che
la questione è tra quella maggiormente dibattute.
Non va trascurato il fatto che il passaggio automatico dei beni comuni de residuo dalla titolarità e
disponibilità esclusiva del coniuge al patrimonio in comunione si tradurrebbe in una
menomazione dell’autonomia e della libertà del coniuge stesso, che il legislatore ha, invece,
inteso salvaguardare nella fase precedente allo scioglimento, con il rischio che la conflittualità tra
coniugi, che spesso caratterizza alcune delle fattispecie che determinano le cessazione del regime
patrimoniale legale, possa riverberarsi anche nella gestione e nelle scelte che afferiscano ai beni
aziendali caduti nella comunione de residuo.
Inoltre, l’individuazione dei beni oggetto della comunione de residuo testimonia lo sforzo del
legislatore di raggiungere un auspicato bilanciamento tra il principio solidaristico, che dovrebbe
informare la vita coniugale (art. 29 Cost.), da un lato, e la tutela della proprietà privata e della
remunerazione del lavoro, dall’altro (artt. 35, 41, 42 Cost.).
La Cassazione Sezioni Unite, rilevato il contrasto giurisprudenziale, con sentenza n. 15889
pubblicata in data 17 maggio 2022 si è così pronunciata <<Nel caso di impresa riconducibile ad
uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione de residuo,
al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di
credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al
momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività
esistenti alla medesima data>>.
Ne discende che la tutela del coniuge non imprenditore è assicurata dal riconoscimento di un
mero diritto di credito, in virtù di un necessario bilanciamento tra l’esigenza di tutela della
famiglia e quella dell’impresa e dei suoi creditori.