Articolo degli avvocati Carla Sodano e Stefano Mazziotti di Celso
L’art. 33, comma 5, della L. 104/1992 prevede testualmente che: “Il lavoratore di cui al comma 3 ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”.
Tale norma esprime una di quelle forme di provvidenza concepite in uno “Stato sociale” a favore di coloro che si occupano dell’assistenza nei confronti di parenti disabili.
Tutto ciò sul presupposto che il ruolo delle famiglie “resta fondamentale nella cura e nell’assistenza dei soggetti portatori di handicap” (Corte Cost. n. 213 del 2016).
L’art. 33, comma 5, tutela indirettamente le persone in condizione di handicap, attraverso l’agevolazione del familiare dipendente nella scelta della sede ove svolgere la propria prestazione lavorativa di modo che quest’ultima risulti il più possibile compatibile con la funzione solidaristica dell’assistenza alla persona disabile.
La norma, però, non conferisce in capo al lavoratore un diritto soggettivo pieno ed assoluto al quale corrisponde un obbligo datoriale, ma subordina l’esercizio dello stesso ai soli casi in cui ciò sia effettivamente possibile.
La giurisprudenza sia di merito che di legittimità ha infatti interpretato l’inciso “ove possibile” come un limite derivante dal necessario e corretto bilanciamento dei contrapposti interessi costituzionalmente rilevanti, ovvero da un lato la solidarietà, il diritto alla salute e all’assistenza e dall’altro quello della libera iniziativa ed organizzazione imprenditoriale ex art. 41 Cost.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito al riguardo il seguente principio: “Il diritto del genitore o del familiare lavoratore, che assiste con continuità un portatore di handicap, di scegliere la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e di non essere trasferito ad altra sede senza il proprio consenso, disciplinato dall’art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, non si configura come assoluto ed illimitato, giacché esso – come dimostrato anche dalla presenza dell’inciso “ove possibile” – può essere fatto valere allorquando, alla stregua di un equo bilanciamento tra tutti gli implicati interessi costituzionalmente rilevanti, il suo esercizio non finisca per ledere in maniera consistente le esigenze economiche, produttive od organizzative del datore di lavoro” (Sent. 27/03/2008, n. 7945).
Sulla medesima scia, il Tribunale di Roma ha recentemente chiarito che: “Il diritto attribuito al lavoratore (cfr., art. 33, comma 5, della legge n. 104/1992) che assiste con continuità un familiare affetto da grave disabilità, di scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere, non è incondizionato, com’è reso evidente dall’inciso “ove possibile” contenuto nella citata norma, richiedendosi un equo bilanciamento con altri diritti ed interessi del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 41 Cost. incontrando le esigenze assistenziali il limite di esigenze tecniche, organizzative e produttive, allegate e comprovate da parte datoriale, non solo effettive ma anche non suscettibili di essere diversamente soddisfatte. In particolare, tali esigenze assistenziali non potranno prevalere allorché l’esercizio del diritto di scelta venga a ledere in maniera consistente le esigenze economiche ed organizzative del datore di lavoro, in quanto ciò può tradursi in un danno per la collettività” (Sent. 16/02/2022).
Il diritto di scegliere la sede di lavoro più vicina ed agevole per le proprie necessità di assistenza al parente disabile, sia esso esercitato al momento dell’assunzione ovvero in costanza di rapporto, deve quindi passare sempre e comunque attraverso la necessaria e comprovata sussistenza di un posto vacante nella sede datoriale “prescelta”.
Stando così le cose, risulta di fondamentale importanza comprendere al riguardo su chi ricada l’onere della prova. Ebbene, in tali casi grava sul datore di lavoro l’onere probatorio in merito alla sussistenza delle ragioni aziendali impeditive dell’accoglimento delle (legittime) richieste del dipendente: tale conclusione è avvalorata non solo dalla lettera della legge, dal generale principio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova (quale mezzo di definizione della regola di giudizio di cui all’art. 2697 cod. civ. riconducibile all’art. 24 Cost.) ma anche dal divieto di interpretare la norma in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio.