Articolo dell’avvocato Stefano Mazziotti di Celso e dell’avvocato Carlotta Sodano
Il licenziamento per soppressione della mansione rientra in quelli c.d. per giustificato motivo oggettivo, ovverosia quei provvedimenti espulsivi che non trovano origine da inadempimenti o negligenze del dipendente (tipici della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo) ma in ragioni di tipo tecnico – organizzativo dell’azienda.
Poiché tale tipo di licenziamento scaturisce dalla libera attività di impresa del datore di lavoro, il quale ha la piena facoltà di riorganizzare gli assetti aziendali come meglio crede (anche se comporta una riduzione della forza lavoro), ciò su cui può eventualmente intervenire il Giudice del Lavoro adito dal dipendente è la sussistenza o meno della “genuinità” delle scelte aziendali.
Le attività valutative del Magistrato, quindi, mirano esclusivamente a verificare che la motivazione posta a base del licenziamento per g.m.o. sia effettiva e non miri invece a celare decisioni illecite (quali ad esempio licenziamenti ritorsivi, discriminatori e/o comunque basati su motivi di tipo soggettivo).
Prima di procedere al licenziamento, però, il datore dovrà verificare che non vi siano mansioni alternative (di pari livello o anche inferiori) a cui può eventualmente essere adibito il lavoratore. Tale attività di “verifica”, c.d. repêchage, è un obbligo di creazione giurisprudenziale evidentemente sorto per salvaguardare l’occupazione all’interno della medesima azienda.
È importante ricordare che in sede giudiziale sarà onere del datore di lavoro dimostrare che al momento del licenziamento non sussistevano altre posizioni libere da assegnare al dipendente: laddove mancasse tale prova il licenziamento sarà dichiarato illegittimo.
La Corte di Cassazione Civile, sez. lavoro, con la sentenza 21/07/2016 n. 15082 ha analizzato approfonditamente l’ipotesi della soppressione della mansione e/o del posto di lavoro.
Secondo la S.C., tale scelta aziendale – come detto insindacabile sotto il profilo della sua opportunità ed efficacia – può conseguire:
– da una diversa organizzazione tecnico-produttiva che abbia reso determinate mansioni obsolete o non più necessarie;
– dall’esternalizzazione di determinate mansioni;
– dalla soppressione di un intero reparto;
– dalla riduzione del numero di addetti, rivelatosi sovrabbondante rispetto all’impegno richiesto;
– da una diversa ripartizione delle mansioni tra il personale in servizio, attuata ai fini di una più economica ed efficiente gestione aziendale.
A detta del Collegio, tutte le ipotesi delineate presentano la medesima costante: il fine di migliorare la produttività aziendale. Ogni incremento di produttività, infatti, si traduce sempre in un risparmio di costi, a nulla rilevando che tale contrazione serva solo a prevenire o contenere perdite di esercizio o sia destinata ad un incremento del profitto.
Ai fini della legittimità del recesso datoriale, ciò che rileva è dunque il fatto che la finalità perseguita si estrinsechi in un genuino mutamento dell’organizzazione tecnico-produttiva aziendale, in quanto è vietato il perseguimento del profitto mediante il mero abbattimento del costo del lavoro, realizzato cioè con il puro e semplice licenziamento di un dipendente non dovuto ad un effettivo mutamento organizzativo, ma dipeso solo dal bisogno di sostituirlo con altro retribuito in misura inferiore (malgrado l’identità o l’equivalenza delle mansioni).
In definitiva, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro deve dimostrare nell’eventuale sede giudiziale (laddove cioè il lavoratore dovesse impugnare il licenziamento subito):
1) l’effettività e genuinità della dedotta ristrutturazione organizzativa;
2) la sua incidenza sulla posizione rivestita in azienda dal lavoratore, ovvero la soppressione del reparto o della specifica attività/mansione cui era addetto o infine un riassetto organizzativo volto ad ottenere una più razionale ed economica gestione aziendale;
3) l’impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni equivalenti o anche inferiori.
A tal ultimo proposito, giova precisare che il Legislatore ha modificato l’art. 2103 c.c. con il D.Lgs. n. 81/2015, stabilendo in particolare che a partire dal 25.6.2015 i datori di lavoro possono decidere di modificare la propria attività produttiva e/o la propria organizzazione del lavoro e, conseguentemente, attribuire unilateralmente ad un lavoratore mansioni appartenenti ad un livello contrattuale inferiore (ovvero demansionarlo), purché rientranti nella medesima categoria di inquadramento legale.
Il mutamento di mansioni, in ogni caso:
- a) deve essere accompagnato, “ove necessario” dall’assolvimento dell’obbligo formativo (la cui violazione, tuttavia, non determina la nullità della assegnazione);
- b) deve essere comunicato per iscritto “a pena di nullità“;
- c) non determina un abbassamento del livello di inquadramento;
- d) non può comportare una riduzione del trattamento retributivo (salve le specifiche voci retributive collegate alla precedente mansione).
Infine, merita segnalare che la Corte di Cassazione Sez. lavoro, con la recentissima sentenza 02/12/2022, n. 35496, ha chiarito che “il fatto costitutivo del giustificato motivo oggettivo è rappresentato sia dalle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa sia dall’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (cd. “repêchage”) essendo onere del datore di lavoro dimostrare i presupposti legittimanti il licenziamento. Il fatto che è all’origine del licenziamento per giustificato motivo oggettivo include tali ragioni e, in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore”.
Ciò significa che, qualora durante il giudizio il datore di lavoro non fornisca la prova della sussistenza di entrambi i predetti fatti costitutivi, il Giudice dovrà dichiarare l’insussistenza del fatto posto alla base del recesso ed applicare conseguentemente l’art. 18 comma 4 L. 300/70, ovvero disporre la reintegra del dipendente nel proprio posto di lavoro (c.d. tutela reale).