Articolo dell’avvocato Valentina Giordano
Negli ultimi anni “essere green” è di moda, tutti cercano di essere come Greta Thunberg per realizzare una vita ad “impatto 0” e possiamo dire che non c’è voluto molto per fare arrivare tale “nuovo stile di vita” anche nelle realtà aziendali nazionali e internazionali.
Tuttavia, molte aziende hanno realizzato, nel corso del tempo, il fenomeno noto come greenwashing ovvero hanno praticato delle strategie di comunicazione ingannevole, facendo finta di dimostrare un attaccamento all’ambiente e al pianeta al solo fine di guadagnare punti in reputazione e immagine aziendale, attraendo il consumatore ecosensibile.
Non si tratta però di un fenomeno nuovo in quanto il primo a parlarne fu l’ambientalista statunitense Jay Westerveld nel 1986 per stigmatizzare la pratica delle catene alberghiere che facevano leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani, nascondendo in realtà una motivazione legata al risparmio economico.
Negli anni 90’ tale pratica è andata intensificandosi poiché grandi aziende americane chimiche e petrolifere tentarono di spacciarsi come “eco-friendly” al solo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle pratiche tutt’altro che responsabili che venivano realizzate, causando danni significativi per l’inquinamento. Fu proprio in quel periodo che iniziò a diffondere il termine greenwashing, parola composta da green (ecologico) e whitewash (insabbiare, nascondere qualcosa).
Ed infatti, per greenwashing si intende quella strategia di marketing che fa leva sulla reputazione ambientale dell’impresa o su caratteristiche sostenibili del prodotto non ventiere, realizzando quindi una appropriazione indebita di virtù ambientaliste finalizzata alla creazione di un’immagine verde, con due obiettivi: valorizzare la reputazione ambientale dell’impresa e ottenere benefici in termini di fatturato per l’aumento di clientela.
Tra i tanti modi in cui si può fare greenwashing sicuramente l’utilizzo di un linguaggio vago e approssimativo è il primo segnale di allarme o, al contrario, tanto gergale e tecnico da essere incomprensibile ai non addetti ai lavori. Allo stesso modo l’utilizzo di immagini suggestive, con prevalenza di tonalità di verde o di soggetti naturali che evocano un certo interesse del brand o del prodotto verso le questioni ambientali, possono trarre in inganno.
Un’azienda in campagna promozionale può sostenere che un prodotto sia green e a basso impatto ambientale esclusivamente sulla base di un set (molto) limitato di parametri come avviene, per esempio, con alcuni detergenti presentati come alternativa ecosostenibile dal momento che, durando di più, implicano il consumo di meno flaconi in plastica. Il problema è che non si considera che, nella maggior parte dei casi, questi contengono una concentrazione maggiore di derivati del benzene, altamente inquinanti.
In generale, nei casi più frequenti di greenwashing la comunicazione si caratterizza dai seguenti fattori:
- non vengono fornite informazioni o dati significativi che supportino quanto dichiarato nel messaggio pubblicitario;
- vengono date informazioni e dati dichiarandoli certificati quando invece non sono riconosciuti da organi accreditati e autorevoli;
- vengono enfatizzate singole caratteristiche dei prodotti pubblicizzati, ritenendole di per sé sufficienti a classificarli come prodotti;
- le indicazioni sul prodotto sono talmente generiche che il loro significato può venire frainteso dai consumatori;
- vengono inserite etichette false o contenenti parole o certificazioni contraffatte;
- vengono fatte asserzioni ambientali che sono semplicemente false.
Oggi il greenwashing in Italia viene considerato pubblicità ingannevole ed è controllato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Inoltre, nel 2014 l’Istituto Autodisciplina Pubblicitaria ha pubblicato il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, inserendo all’art. 12 una specifica norma volta alla “Tutela dell’ambiente naturale”.
Accanto a tali fonti normative occorre ricordare le raccomandazioni internazionali in materia emanate dall’ICC e dall’OCSE nonché la proposta di Direttiva del Parlamento e del Consiglio europeo che andrà a modificare la Direttiva 2005/29/CE e la Direttiva 2011/83/CE con la finalità di impedire l’attuazione di pratiche sleali che ostacolano acquisti sostenibili come quelle riconducibili al greenwashing.
Appare quindi chiaro come la tematica della sostenibilità ambientale sia di notevole rilievo nel panorama attuale, con l’effetto che la perdita di fiducia da parte dei consumatori a seguito delle pratiche di greenwashing può avere notevoli ripercussioni sull’immagine, sulla reputazione delle società e sul valore del marchio con la conseguenza che il danno per l’impresa può rivelarsi anche superiore rispetto al beneficio che l’azienda sperava di ottenere ponendo in essere la pratica scorretta.
Per questo motivo, le aziende devono adottare delle strategie comunicative e di compliance di breve e lungo periodo volte ad evitare ricadute a livello di business, dotandosi di professionisti capaci di rispondere a questa esigenza. Contattaci per saperne di più.