Articolo degli avvocati Carla Sodano e Stefano Mazziotti di Celso
I crediti retributivi – in assenza di una specifica disposizione legislativa – vengono ricondotti dall’orientamento giurisprudenziale maggioritario all’interno della categoria di cui al comma 4 dell’art. 2948 c.c., per il quale “gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi” sono soggetti alla prescrizione c.d. breve di 5 anni.
Anche in relazione alla decorrenza dei termini prescrizionali manca una specifica norma di riferimento, per cui trova applicazione il principio generale dettato dall’art. 2935 c.c.: “La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”.
La questione, tuttavia, anche a causa del diverso peso contrattuale delle parti interessate, è stata oggetto di numerosi dibattiti e contrasti sia dottrinari che giurisprudenziali.
La materia è stata più volte analizzata dalla Corte Costituzionale, la quale con la sentenza 63/1966 aveva stabilito che era da escludere la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro, tenuto conto che il lavoratore potrebbe facilmente rinunciare ad un proprio diritto “nel timore del recesso (licenziamento)”.
È dunque evidente che l’ordinamento tenga in debita considerazione il fatto che il lavoratore versi in una situazione di “inferiorità psicologica” (c.d. “metus”) rispetto al proprio datore di lavoro e che tale situazione sia meritevole di tutela.
Con l’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970), ed in particolare dell’art. 18, la Corte Costituzionale è poi tornata sui propri passi ritenendo fosse legittimo far decorrere la prescrizione anche durante il rapporto di lavoro (ovviamente non in termini assoluti ma nelle fattispecie soggette a tutela, creando in tal modo un doppio regime). Ciò trovava giustificazione nel fatto che i lavoratori avevano acquisito maggiori garanzie e tutele nei casi di licenziamenti illegittimi, che di fatto diminuiva lo squilibrio tra le posizione delle due parti contrattuali e riduceva il “metus” del dipendente.
A partire da quel momento, dunque, il dies a quo della prescrizione derivava dalla c.d. “stabilità” del contratto di lavoro così come scaturente dall’applicazione o meno al singolo rapporto dell’art. 18 dello Statuto. In questo senso, dunque, si muoveva anche la giurisprudenza di merito.
Come noto, però, dapprima la Legge Fornero (L. 92/2012) e poi il Jobs Act (D.lgs. 23/2015) hanno ridimensionato le tutele in materia di licenziamento introdotte dalla L.300/70, limitando fortemente le ipotesi reintegratorie nel posto di lavoro in caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento.
Stando così le cose, è evidente che il quadro generale in cui si erano innestate le pronunce della Corte Costituzionale e le applicazioni pratiche effettuate dai singoli Tribunali è nuovamente mutato.
Tale situazione generava nuovi interrogativi (e contrasti) sulla tenuta del principio logico adottato per discernere le situazioni in cui il differimento del dies a quo andava applicato o meno al momento della cessazione del rapporto, dal momento che lo stesso articolo 18 dello Statuto era stato evidentemente depotenziato e con sé le tutele dei lavoratori a vedersi “assicurata” la reintegra nei casi di risoluzione illegittima. In tal modo la posizione di equilibrio contrattuale tra le parti perseguita dallo Statuto era da ritenersi disattesa ed il “metus” dei lavoratori si è giocoforza riaffacciato nuovamente in gran parte dei rapporti di lavoro (e per ovvie ragioni destinato nel corso del tempo a divenire totalizzante).
Le pronunce da parte dei Tribunali di merito, e finanche delle Corti di Appello, sono state spesso difformi tra di loro, passando da chi continuava ad applicare i principi sino ad allora cristallizzati e chi, invece, riteneva che “dalla data di entrata in vigore della legge 92/2012, ovvero dal 18.7.2012, detta tutela essendo stata fortemente ridotta (relegando la tutela reintegratoria a ristrette e residuali ipotesi) la prescrizione non possa farsi più decorrere nel corso del rapporto anche se il datore di lavoro rientra nel campo dimensionale di applicazione formale dell’art. 18 l. 300/70” (Tribunale di Milano, sent. n. 3460/2015).
A dirimere i contrasti giurisprudenziali creatisi è recentemente intervenuta la Suprema Corte con la sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022, statuendo che: “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro. Conseguentemente la prescrizione dei crediti lavorativi decorre dalla conclusione del rapporto di lavoro anche per quei rapporti in cui trova applicazione l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori”.
La Corte di Cassazione ha riformato una sentenza della Corte di Appello di Brescia che aveva ritenuto, anche dopo la riforma dell’art. 18 legge dello Statuto dei lavoratori, la permanenza della stabilità reale del rapporto di lavoro. In particolare, la Corte bresciana ha negato la ricorrenza di una condizione psicologica di timore del lavoratore, tale da indurlo a non avanzare pretese retributive nel corso del rapporto paventando, appunto, reazioni del datore di lavoro comportanti la risoluzione del rapporto. E ciò per avere ritenuto il mantenimento di una tutela ripristinatoria piena, in caso di licenziamento intimato “per ritorsione, e dunque discriminatorio”.
Di opposto avviso è stata invece la Suprema Corte, la quale effettuando una ricostruzione storico-giuridica della questione, ha invece statuito che “deve essere ribadito che la prescrizione decorra, in corso di rapporto, esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione “contro ogni illegittima risoluzione” nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell’art. 18, anteriore alla L. n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava. A questa oggettiva precognizione si collega l’assenza di metus del lavoratore per la sorte del rapporto di lavoro ove egli intenda far valere un proprio credito, nel corso di esso: caratterizzato dal regime di stabilità comportato da quella resistenza che assiste, appunto, il rapporto d’impiego pubblico”.