Articolo dell’avvocato Paolo Picone
Secondo un ormai consolidato orientamento della Cassazione “in ipotesi di contratto di conto corrente bancario affidato con saldo negativo, il creditore non può pignorare le singole rimesse che, affluite sul conto del debitore, hanno comportato la mera riduzione dello scoperto, ma eventualmente il solo saldo positivo, atteso che il contratto in questione dà luogo ad un rapporto giuridico unitario, composto da poste attive e passive, che non si risolve a seguito del pignoramento” (Cass. n. 6393 del 30.03.2015; Cass. n. 1638 del 25.2.1999; nel medesimo senso, sia pure in fattispecie particolare, Cass. n. 9250 del 20.5.2020).
Da ultimo Cass. n. 36066 del 23.11.2021, ha ulteriormente ribadito che non è autonomamente pignorabile la mera disponibilità derivante al correntista in virtù del contratto di apertura di credito bancario e che con riguardo al rapporto di conto corrente bancario, è pignorabile in danno del correntista solo il saldo attivo del rapporto, non le singole rimesse che affluiscono sullo stesso. Di conseguenza se al momento del pignoramento il saldo del rapporto in conto corrente è negativo, le eventuali successive rimesse a favore del correntista non determineranno necessariamente l’esistenza di un credito pignorabile, se non nella misura in cui esse siano tali da rendere tale saldo positivo, e comunque nei limiti di tale saldo positivo.
Le conclusioni appena esposte, secondo l’arresto citato, valgono anche nel caso in cui il saldo negativo del rapporto in conto corrente deriva da un’apertura di credito non completamente utilizzata.
In definitiva, nel caso in cui, al momento della notificazione del pignoramento avente ad oggetto il credito costituito dal saldo del rapporto di conto corrente bancario, quest’ultimo sia negativo, occorre distinguere:
a) se successive rimesse a favore del correntista rendono il saldo positivo, tale saldo positivo sarà automaticamente assoggettato al pignoramento e vincolato in favore del creditore procedente (di modo che, nei limiti dell’importo di detto saldo positivo, ulteriori successive rimesse negative non gli saranno opponibili e non lo potranno pregiudicare);
b) se ciò non avviene, se cioè, nonostante le successive rimesse a favore del correntista, il saldo del rapporto resta comunque negativo, ciò comporta che, in concreto, non può mai ritenersi venuto in essere un credito del cliente (debitore esecutato) assoggettabile al vincolo del pignoramento (anche se ciò avviene perchè, in virtù di ulteriori utilizzazioni della disponibilità derivante dall’apertura di credito, nonostante intervengano rimesse di importo complessivamente superiore all’originario saldo negativo, il saldo stesso resta comunque negativo in ogni momento del rapporto).
Secondo la Cassazione “essendo pignorabili i crediti del debitore nei confronti dei terzi, non può invece ritenersi assoggettabile ad espropriazione il mero diritto che il predetto debitore vanti ad ottenere a sua volta credito da terzi, in quanto in tal caso egli non può ritenersi titolare di un credito, cioè non può ritenersi titolare di una posizione giuridica attiva che gli garantisca la disponibilità di un bene patrimoniale, ma esclusivamente del diritto a diventare titolare del lato passivo della relativa obbligazione, quale debitore. Ciò è quanto accade nel rapporto cui dà luogo l’apertura di credito bancario, in cui la banca si impegna a tenere a disposizione del correntista una determinata somma, che però il correntista stesso resta obbligato a restituire (sia pure potendola utilizzare in più volte e potendo ripristinare l’originaria disponibilità). Il correntista non può ritenersi titolare, in tal caso, prima che abbia utilizzato la provvista, di un bene assoggettabile ad espropriazione, perchè si tratta di un rapporto negoziale in cui è la banca a concedere credito al correntista ed in relazione al quale, quindi, la posizione del correntista è quella di debitore, non di creditore della banca. Del pari, le rimesse a favore del correntista che affluiscono sul conto corrente non sono beni e, tanto meno, crediti, ma attribuzioni patrimoniali, onde esse non possono di per sè ritenersi suscettibili di espropriazione: oggetto di espropriazione possono essere infatti i beni patrimoniali oggetto delle attribuzioni, non le attribuzioni in quanto tali”.
Il ragionamento appena esposto, a parere di chi scrive, sollecita una riflessione critica, soprattutto con riferimento all’inquadramento sistematico del contratto di apertura di credito regolata in conto corrente, il quale certamente non è assimilabile a un semplice contratto di mutuo.
Come è noto, data anche la sua natura di contratto reale, il mutuo è difficilmente inquadrabile nella categoria dei contratti a prestazioni corrispettive, posto che dal momento stesso del suo perfezionamento, ossia dalla consegna della res, da esso discende unicamente l’obbligazione restitutoria a carico del mutuatario. La causa, onerosa o gratuita, del mutuo, è normalmente riferita unicamente al quantum dell’unica obbligazione restitutoria posta a carico del mutuatario ed è qualificata dalla presenza o meno di “interessi” sulla somma dovuta in restituzione.
L’apertura di credito bancaria regolata in conto corrente, invece, è collocabile a pieno titolo in quella particolare tipologia di contratti obbligatori caratterizzati, sotto il profilo funzionale, dalla corrispettività delle prestazioni, laddove all’obbligo della banca di assicurare al correntista la disponibilità di una somma di denaro sul conto corrente, corrisponde l’obbligo di quest’ultimo di restituire alla banca, al termine del rapporto, quanto attinto a credito dal conto e di pagare periodicamente interessi ultralegali sulle somme, di volta in volta, utilizzate.
Con riferimento all’obbligazione posta a carico della banca, il correlato diritto del correntista, a parere di chi scrive, non è qualificabile diversamente da qualsiasi altro diritto a ricevere una prestazione dal proprio debitore, ossia propriamente, come un vero e proprio diritto di credito.
Sul piano squisitamente sistematico, infatti, difficilmente è possibile concepire diritti nascenti da contratto che non appartengano alla categoria dei diritti reali o a quella dei diritti di credito e quella discendente dall’apertura di credito non è sussumibile sicuramente tra i diritti reali; tertium non datur. Non è di immediata comprensione, quindi, la tesi espressa dalla Cassazione che dal contratto di apertura di credito nasca un diritto del correntista che non è un diritto di credito, bensì il diritto “ad ottenere a sua volta credito da terzi” e quindi “a diventare titolare del lato passivo della relativa obbligazione”. L’espressione utilizzata nella Sentenza in commento tradisce probabilmente la difficoltà di concepire il “prestito” al di fuori dello schema tradizionale del contratto di mutuo inteso come contratto reale, nel quale, ovviamente, la semplice presa in consegna della res, in quanto perfezionativa del contratto, non può essere altrimenti concepita che come vero e proprio negozio giuridico.
In quest’ottica il “diritto a diventare titolare del lato passivo della relativa obbligazione” potrebbe leggersi come il diritto a concludere un contratto di mutuo e solo in tal modo potrebbe giustificarsene la inespropriabilità, al pari di qualsiasi altro diritto di credito che non abbia ad oggetto denaro. Non sono, infatti, pignorabili i crediti aventi ad oggetto una prestazione o un bene diversi dal denaro e tantomeno i crediti” correlati all’obbligazione di concludere un contratto.
La lettura proposta, però, non sfuggirebbe alla critica della impossibilità di qualificare come “contratto di mutuo” ogni singolo prelievo dal conto corrente affidato oppure ogni singolo utilizzo di una carta di credito o di una carta di debito.
Anche le conseguenze pratiche, di una interpretazione siffatta, sarebbero insostenibili, posto che la stessa validità di ogni singolo prelievo o utilizzo della carta di pagamento resterebbe soggetto alla disciplina del contratto, anziché a quella dei semplici pagamenti, con conseguente rilevanza anche dei vizi della volontà finanche nel semplice pagamento del conto di un ristorante.
Piuttosto sarebbe più semplice, sotto il profilo sistematico, prendere atto che l’evoluzione dei contratti di prestito, soprattutto nell’ambito dei rapporti bancari, si è definitivamente svincolata dalla tradizionale “realità” per divenire semplice effetto di rapporti obbligatori complessi, caratterizzati dalla correlazione di reciproche obbligazioni di pagamento. Ponendosi sul suggerito piano interpretativo, il contratto di apertura di credito regolata in conto corrente non può essere letto diversamente da un vero e proprio contratto ad effetti obbligatori caratterizzato dalla corrispettività delle prestazioni, tutte aventi ad oggetto non altro che denaro e tutte correlate a diritti pienamente espropriabili.
Ancor più sotto il profilo pratico, la soluzione ermeneutica suggerita appare molto più aderente all’equilibrio dei rapporti giuridici e alla protezione del credito in generale, rispetto a quella dettata dalla Cassazione.
La tesi che la disponibilità bancaria di un debitore non sia mai espropriabile se non nei limiti del saldo attivo, trascura che la “ricchezza”, nella contemporaneità, non è data da risorse patrimoniali “attive”, bensì soprattutto dalla capacità di accedere al debito.
Un facoltoso imprenditore che goda di affidamenti milionari, sapientemente mantenuti sotto la soglia del limite dell’affidamento bancario rimpinguato da consistenti e costanti incassi, ricevuti sempre tramite rimesse bancarie sul conto affidato (quindi, non espropriabili prima dell’attribuzione), sarebbe messo nelle condizioni di eludere per sempre le ragioni dei suoi creditori pur continuando a godere pienamente di elevate disponibilità di denaro (ovviamente tutte a debito).
Non risponde a criteri di equità, e quindi di ragionevolezza giuridica, un’interpretazione delle norme che, pur non volutamente, provochi oggettivamente la maggiore esposizione all’espropriazione dei più poveri, che non hanno capacità di accedere al credito bancario e protegga invece i debitori più ricchi, capaci di accedere all’affidamento bancario.
Sennonché, l’effetto non desiderato sarebbe evitato consentendo, molto semplicemente, l’espropriazione delle disponibilità bancarie.
Neppure può sostenersi che in questo modo venga sacrificato l’interesse (e il diritto) delle banche a non vedere alimentata, coattivamente, l’esposizione del debitore esecutato nei loro confronti.
Il creditore che attiva il pignoramento, infatti, come giustamente rilevato dalla Sentenza in commento, non merita maggiore protezione della banca. Il contemperamento tra le posizioni dei creditori non può dipendere, come pure giustamente argomentato dalla Sentenza in commento, dal grado di protezione accordato al credito, posto che al di fuori delle procedure concorsuali non vige alcuna regola che possa assicurare maggior protezione all’uno o all’altro credito. In caso del pignoramento presso terzi, però, la banca che veda pignorare la provvista messa a disposizione di un correntista, ha sempre la possibilità di rendere legittimamente una dichiarazione negativa di quantità, semplicemente revocando ad horas l’affidamento concesso al debitore, avendone sicuramente il diritto ogni volta che le condizioni patrimoniali del cliente lascino temere una situazione di insolvenza.
In tal modo, infatti, renderebbe immediatamente esigibile il credito all’azzeramento dello scoperto di conto, il quale, prima della revoca, e contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza in commento, resterebbe comunque un credito potenziale e futuro, comunque sicuramente inesigibile nell’attualità.
Ciò significa che di fronte a pignoramenti sostenibili nell’entità (si pensi al caso frequente, nella prassi, del pignoramento disposto da un Comune per la violazione di una norma del codice della strada), che non mettano a rischio la solidità del cliente, la banca potrebbe assicurare soddisfazione al creditore procedente semplicemente riducendo le disponibilità finanziaria del conto. Di contro, in caso di pignoramenti rilevanti, tali da mettere a rischio le capacità restitutorie del correntista affidato, la banca avrebbe senz’altro facoltà di esercitare il recesso dall’affidamento bancario e in questo modo impedire che il pignoramento possa aggravare lo scoperto di conto a suo danno.
Anche in quest’ultimo caso, peraltro, la revoca dell’affidamento quantomeno assicurerebbe al creditore che le successive rimesse siano sottratte alla disponibilità del debitore e che le stesse vengano interamente imputate al pagamento dei debiti, prima in favore della banca, naturalmente, e solo dopo l’azzeramento dello scoperto, dello stesso creditore procedente. Ciò che occorrerebbe invece evitare è che la banca possa rendere la dichiarazione negativa di quantità continuando a mantenere gli affidamenti concessi al correntista-debitore, perché è questa la situazione che si palesa ingiusta e contraria alle ragioni creditorie e che rende inspiegabile la protezione garantita alle banche (e al debitore affidato) dall’orientamento criticato.
In questo caso, infatti, seguendo i principi affermati dalla Cassazione, il creditore non verrà pagato e il debitore continuerà però ad avere piena disponibilità delle rimesse riversate sul conto anche dopo il pignoramento, potendone liberamente usufruire nei limiti dell’affidamento concesso.