Articolo degli avvocati Carla Sodano e Stefano Mazziotti di Celso
Il nostro ordinamento pone molta attenzione alla tutela della maternità, ed a tal uopo l’art. 54 del D.Lgs. 151/2001 ha previsto – tra l’altro – il divieto di licenziamento delle lavoratrici madri “dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento un anno di età del bambino”.
Il suddetto divieto opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, indipendentemente cioè dal fatto che la condizione della dipendente sia conosciuta o meno dal datore di lavoro.
La lavoratrice è tenuta a presentare al datore di lavoro idonea certificazione dalla quale risulti la sussistenza all’epoca del licenziamento delle condizioni che lo vietavano.
Il suddetto Decreto legislativo n. 151/2001, al comma 3 dell’art. 54, individua le fattispecie in cui il divieto di licenziamento non opera, ovverosia in caso “a) di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; b) di cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta; c) di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine; d) di esito negativo della prova; resta fermo il divieto di discriminazione di cui all’articolo 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125, e successive modificazioni”.
Il licenziamento intimato in assenza delle eccezioni tipizzate dalla norma è nullo.
Con una recentissima sentenza, la Suprema Corte ha definitivamente chiarito che la cessazione dell’attività aziendale legittima il licenziamento della lavoratrice madre solo quando interessi l’intera impresa, e non anche reparti ovvero singole unità produttive. In particolare, la Corte di Cassazione, con la sent. n. 13861 del 20.5.2021, ha statuito che in tema di “tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento di cui all’art. 54, comma 3, lett. b), del dlgs. n. 151 del 2001, dall’inizio della gestazione fino al compimento dell’età di un anno del bambino, opera solo in caso di cessazione dell’intera attività aziendale, sicché, trattandosi di fattispecie normativa di stretta interpretazione, essa non può essere applicata in via estensiva od analogica alle ipotesi di cessazione dell’attività di un singolo reparto dell’azienda, ancorché dotato di autonomia funzionale”.
Stando così le cose, quali spazi di manovra possono essere concessi al datore di lavoro nel caso in cui cessi la singola unità produttiva alla quale era adibita la lavoratrice?
La soluzione non è agevole, dal momento che se è vero, da un lato, che in ottica di repêchage il datore avrebbe l’obbligo di trasferire la propria dipendente in un’altra unità produttiva, è altresì vero che l’art. 56 del suddetto decreto sancisce l’illegittimità del trasferimento della lavoratrice madre nel primo anno di vita del bambino.
Sul punto si è pronunciato il Tribunale di Roma, Sez. Lavoro, stabilendo con la sent. n. 42428/2017 che il trasferimento intimato alla lavoratrice madre sia da considerarsi legittimo quando:
- sia completamente cessato il reparto presso il quale la lavoratrice madre era addetta prima dell’assenza per maternità;
- non sia possibile utilizzare proficuamente la sua prestazione lavorativa nella stessa città.
A tale pronuncia ha fatto poi seguito la sentenza della Corte di Cassazione Sez. lavoro 19-06-2018, n. 16147, con la quale si è statuito che: “Non v’è dubbio che, ex art. 56 in parola, la lavoratrice in maternità abbia diritto, al ritorno dal periodo di astensione obbligatoria, di rientrare nella stessa unità produttiva ove era occupata all’inizio del periodo di gravidanza o in altra ubicata nel medesimo Comune, e tuttavia, laddove ciò sia oggettivamente impossibile, per ragioni effettive e non pretestuose, così come chiaramente accertato dalla sentenza impugnata, non può imporsi all’imprenditore di mantenere in servizio una lavoratrice presso una sede che obiettivamente e pacificamente non esiste più, e dunque senza che possa eseguire alcun lavoro, corrispondendogli la retribuzione (nella specie sino al compimento di un anno di età del bambino), retribuzione, com’è noto, che costituisce il corrispettivo dell’attività lavorativa e che in via di principio non spetta in caso di mancanza di quest’ultima (cfr., ex aliis, Cass. n. 17353/12, Cass. n. 2734/08, Cass. n. 7843/03)”.
E’ dunque evidente che, in presenza delle suddette condizioni, considerata l’impossibilità di licenziare per g.m.o. la dipendente, quest’ultima potrebbe legittimamente essere destinataria di un provvedimento di trasferimento da parte del datore di lavoro, il quale però nel farlo dovrebbe considerare prioritariamente le sedi territorialmente più vicine al luogo di residenza della medesima lavoratrice.
Il provvedimento di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, invece, potrebbe essere legittimamente intimato esclusivamente laddove mancasse del tutto la possibilità di ricollocare fruttuosamente la dipendente e, quindi, nella sola ipotesi di completa cessazione dell’attività aziendale.