Articolo di Avv. Paolo Picone
Il tema degli “usi civici”, denso di connotazioni storiche, è tornato in auge nelle aule giudiziarie perché abilmente evocato dai mutuatari insolventi per cercare di paralizzare le esecuzioni condotte dalle banche sulle loro abitazioni ipotecate, con la conseguenza che è invalsa pure la tendenza, da parte delle banche creditrici, di agire in rivalsa contro i notai, ritenuti colpevoli di aver rogitato mutui ipotecari rimasti infruttuosi e inficiati da nullità quanto alla concessione della garanzia.
Il fatto che l’attenzione su questo problematico istituto sia stata sollecitata nei procedimenti esecutivi immobiliari e si sia rivitalizzata, in periodi di crisi economica, solo per arginare le azioni esecutive immobiliari, dimostra quanto sia necessario un coordinamento esegetico dell’istituto con i principi dell’ordinamento giuridico vigente.
Del resto se gli “usi civici” si sono affermati in epoca medievale come un diritto naturale delle comunità̀ insediate su un territorio (universitas) contro il dominio del feudatario e quindi come un diritto dei privati cittadini nei confronti del potere costituito che trovava motivazione nella necessità di garantire la sopravvivenza delle popolazioni attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali, la trasformazione delle universitas in Comuni e l’abolizione del sistema feudale ad opera dei rivoluzionari francesi, ha trasformato quegli antichi diritti in vere e proprie limitazioni della piccola proprietà̀ rurale, da superare e da rimuovere, nello spirito di una più̀ efficiente e rinnovata concezione della proprietà̀ privata nel sistema liberale e poi capitalistico.
Il brocardo ubi feuda ibi demania, invalso prima della legge di eversione della feudalità̀ del 1806, che esprimeva la sacrosanta necessità di porre un limite a ogni potere feudale, in tempi moderni è venuto a cedere il campo al principio esattamente opposto, perchè l’evoluzione del sistema economico-produttivo ha determinato una totale inversione del rapporto pubblico/privato nell’ambito dell’istituto in commento, trasformando quelli che erano diritti delle persone su pascoli, boschi e coltivazioni dei latifondi, in veri e propri gravami sulla piccola proprietà privata e sostanzialmente gestiti dalla pubblica autorità.
Lo stesso tentativo di modernizzazione e di sostanziale superamento dell’istituto, ascrivibile alla legge fascista 16 giugno 1927, n. 1766, non ha sortito sicuramente gli effetti sperati, soprattutto nella parte in cui la ripartizione delle terre civiche è stata disposta a titolo di enfiteusi, con l’obbligo delle migliorie e condizionando l’affrancazione all’esecuzione e all’accertamento delle medesime, lasciando intatto, nelle more, ogni vincolo di inalienabilità e imprescrittibilità.
È un fatto storico che le rivolte contadine del primo dopoguerra e l’impossibilità per i Comuni di rivendicare imposizioni ormai considerate vessatorie in un territorio completamente devastato dal conflitto bellico, ha determinato, in pochi anni, la definitiva scomparsa, di fatto, dei “livelli” e dei “canoni enfiteutici”, ancorché dichiarati imprescrittibili per legge.
Né successivamente si sono ricreate le condizioni per imporre i vecchi oneri divenuti ormai desueti e spesso di fatto “rimossi” dalle stesse certificazioni catastali, perchè́ l’abbandono di massa delle campagne e lo sviluppo incontrollato dell’urbanizzazione, fatta eccezione per le aree che sono state protette da vincoli più̀ penetranti (es. creazione di parchi nazionali) e sottratte alla cementificazione, hanno trasformato gran parte degli antichi “usi civici” (ove non funzionali alla protezione del “diritto all’ambiente” nella sua nuova accezione costituzionale) in un mero retaggio del passato, privo di contenuto e di interesse per la collettività, da rinverdire alla bisogna solo in quanto utile, magari, ad ostacolare un esproprio immobiliare.
Già̀ l’articolo 5 della legge 4 dicembre 1993, n. 491, nel trasferire le competenze in materia di commissariati agli usi civici esercitate dal soppresso Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste al Ministero di Grazia e Giustizia, aveva preannunciato un imminente riordino generale della materia, ritenuto evidentemente necessario dallo stesso legislatore per assicurare il definitivo coordinamento dell’antico istituto con i mutati assetti produttivi, economici e giuridici, della popolazione e del territorio.
L’auspicio veniva espresso anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 46 del 20 febbraio 1995, laddove, nel valutare i profili di legittimità̀ costituzionale dei poteri officiosi riconosciuti al “commissario”, divenuti certamente poco conciliabili con la sua natura e funzione di “giudice”, la Corte ha dovuto addirittura far riferimento a: <<un criterio di legittimità̀ costituzionale provvisoria più̀ volte applicato … in attesa del riordino generale della materia degli usi civici>> (Corte Cost. n.46 del 20 febbraio 1995).
A distanza di molto tempo dalla pronuncia citata è intervenuta la legge 20.11.2017 n. 168, intitolata <<norme in materia di domini collettivi>>, la quale non ha sicuramente dato risposta esaustiva alle più rilevanti problematiche dell’antico istituto e soprattutto non ha assicurato un chiaro coordinamento degli usi civici con i principi costituzionali in materia di proprietà̀, di limitazioni, di esproprio e con le regole che disciplinano l’ufficio dei notai e lo stesso regime della pubblicità̀ immobiliare posto a presidio dell’esigenza di certezza delle relative situazioni giuridiche.
Con proprie leggi le Regioni, nel tempo, hanno assolto al compito di procedere alla ricognizione degli usi civici e alla redazione dei relativi inventari, oggi tenuti da specifici uffici.
È stata affermata la tesi che la mancata consultazione dell’ufficio usi civici della Regione di competenza, da parte del notaio incaricato di un rogito immobiliare, sia parificabile all’omesso espletamento delle visure immobiliari, con diretta responsabilità del professionista per il danno eventualmente cagionato nel caso in cui il bene sia gravato da usi civici e quindi inalienabile (cfr. ad esempio Tribunale di Napoli, sentenza n. 4563 del 19.04.2017).
Sulla base della dichiarazione proveniente dall’ufficio regionale, attestante l’inclusione dell’immobile nell’inventario redatto dalla medesima autorità amministrativa, il notaio dovrebbe quindi sempre rifiutare il rogito ai sensi dell’art. 28 della Legge notarile del 16 febbraio 1913 n. 89, senza incorrere, evidentemente, nelle responsabilità̀ connesse all’ingiustificato rifiuto dell’officio di cui all’art. 27 della medesima Legge.
Sennonché per inquadrare correttamente la rilevanza giuridica degli “inventari regionali” occorre risalire alle origini della riferita attività di ricognizione amministrativa.
Nel quadro della legge 1766/1927 gli istituti della legittimazione e dell’affrancazione avrebbero dovuto servire all’integrale estinzione dei gravami ancora presenti sul territorio nazionale e a tale risultato avrebbero dovuto contribuire i Commissari per la liquidazione degli usi civici istituiti dall’art. 27 della legge citata.
Ad essi venne demandato il compito amministrativo legato alla valutazione dei canoni enfiteutici, all’affrancazione, allo scioglimento delle promiscuità̀, nonché́ il compito, di natura squisitamente giurisdizionale, di decidere <<tutte le controversie circa la esistenza, la natura e la estensione dei diritti suddetti, comprese quelle nelle quali sia contestata la qualità̀ demaniale del suolo o l’appartenenza a titolo particolare dei beni delle associazioni, nonché́ tutte le questioni a cui dia luogo lo svolgimento delle operazioni loro affidate>> (art. 29 L 1766/1927).
Entrata in vigore la Costituzione repubblicana la promiscuità̀ di ruoli e funzioni, allo stesso tempo sia amministrative, sia giudiziarie, attribuite al Commissario per la liquidazione degli usi civici, venne dissolta solo con l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario.
L’art. 66 del D.P.R. 616/1977 trasferì̀ alle Regioni i poteri amministrativi del Commissario, lasciando intatto il potere giurisdizionale delle Sezioni specializzate istituite presso le Corti d’Appello, con la particolarità̀ che quel giudice continuava a detenere il potere/dovere di procedere d’ufficio per l’accertamento dell’esistenza degli usi civici (cfr. Corte costituzionale 20-02-1995, n. 46 già̀ citata).
Investita della questione di legittimità̀ costituzionale della permanenza di funzioni amministrative e giudiziarie, apparentemente identiche, in capo a poteri diversi dello Stato, soprattutto in ordine all’accertamento d’ufficio della “qualitas soli”, la Corte costituzionale, con Ord. 03-04-1996, n. 103 ha chiaramente demarcato la distinzione tra le due diverse attribuzioni, precisando che: <<nel caso in esame non si prospetta nemmeno la possibilità̀, presente in altri casi, di giudicati contraddittori>> posta la naturale supremazia del provvedimento giurisdizionale di accertamento su qualsiasi ricognizione amministrativa dell’esistenza o dell’inesistenza dell’uso civico.
La pronuncia citata aveva già̀ trovato concreta affermazione nella giurisprudenza commissariale. Era accaduto, in particolare, che la Regione Lazio, con legge regionale 1/1986 aveva attribuito all’Assessore agli Usi Civici il compito di attestare la natura civica delle aree di proprietà̀ collettiva di Comuni, frazioni e Associazioni agrarie al fine di una corretta pianificazione territoriale. Il Commissario per la liquidazione degli Usi Civici, però, con sentenza n. 143 del 12-17 aprile 1991, affermò che non esisteva in capo all’autorità̀ regionale il potere di certificazione relativo a diritti e terre civiche, e decretò che le certificazioni rilasciate dall’Ufficio Usi Civici Regionale o dal Comune delegato non avevano alcuna base normativa.
È questo il motivo per il quale i certificati di destinazione urbanistica rilasciati dai Comuni, non certificano l’eventuale incidenza di usi civici.
La tesi che vorrebbe attribuire natura certificatoria agli elenchi regionali, in definitiva, trascura completamente la dimensione puramente fattuale degli usi civici e la loro natura sicuramente reale e anche privatistica; trascura l’impossibilità, in regime costituzionale, di sovrapporre i poteri giurisdizionali del commissario liquidatore con quelli attribuiti alla Regione e la stessa necessità di rigorosa prova documentale alla quale i notai (per il beneficio di tutti) sono pur tenuti ad attenersi nell’adempimento del loro ufficio, prima di affermare l’esistenza o l’inesistenza di gravami potenzialmente idonei a limitare il diritto costituzionalmente garantito di proprietà̀ e tali da determinare, addirittura, l’incommerciabilità̀ di un immobile, con consequenziale azzeramento del suo valore patrimoniale.
Occorre ancora soffermarsi sulla stessa possibilità̀ giuridica, nel nostro sistema costituzionale, di privare un cittadino del diritto di ricevere l’ufficio del notaio in base ad una mera attività̀ “ricognitiva” compiuta dall’autorità̀ amministrativa e non consacrata in alcun provvedimento giudiziario e corrispondentemente, sulla base di quella mera dichiarazione, di liberare il notaio dall’obbligo di rogitare in favore di chiunque gliene faccia richiesta (articolo 27 Legge Notarile).
L’impostazione criticata, in conclusione, non tiene conto che gli usi civici non esistono per il fatto di essere inclusi o meno in elenchi “ricognitivi” regionali, ma solo in quanto rispondano a inveterate forme di sfruttamento della terra e siano stati fatti oggetto di accertamento da parte del Commissario in ragione dei suoi poteri decisori giurisdizionali.
La loro origine è similare a quella di qualsiasi diritto reale costituitosi per l’esercizio di fatto ripetuto e costante per un tempo prolungato.
Agli usi civici è stata addirittura attribuita l’essenza di veri e propri diritti naturali, ma indipendentemente da ogni concezione giusnaturalistica è innegabile che l’affermazione del possesso sulla res costituisca il fondamento ontologico, squisitamente fattuale, di ogni acquisto a titolo originario, nonché la fonte di legittimazione di ogni titolo derivativo.
Sennonché́ l’ufficio del notaio non consiste nell’accertare il possesso. Non consiste, più in generale, nell’accertare i presupposti di natura meramente “fattuale” di un acquisto a titolo “originario”.
Il notaio esaurisce il suo compito e le sue funzioni sul piano della mera circolazione dei diritti esistenti.
Anche le indagini ventennali sui titoli di provenienza, relative agli atti immobiliari, devono arrestarsi al profilo puramente formale dell’astratta configurabilità̀ dei presupposti dell’usucapione, senza entrare nel merito del suo effettivo compimento, accertamento che (come pure per gli usi civici) è demandato esclusivamente all’Autorità̀ Giudiziaria.
L’articolo 28 della legge notarile, come integrato dall’art. 12, co. 1, lettera a) della L. n. 246/2005, afferma che il notaio non può̀ ricevere o autenticare atti se essi sono espressamente proibiti dalla legge, o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico. I due avverbi si giustificano per l’esigenza di demarcare non tanto i limiti della responsabilità̀ del notaio, quanto del suo potere di rifiuto della prestazione ai sensi dell’art. 27 della stessa legge notarile; essi sono posti a presidio del diritto di tutti di accedere agli uffici del notaio.
Per questo il notaio può̀ rifiutare il suo ufficio solo quando l’atto sia “espressamente” o “manifestamente” nullo; tale non sarebbe, certamente, l’atto di vendita di un bene già̀ magari usucapito da un terzo, oppure la vendita preclusa da un accertamento giudiziale non trascritto e non conosciuto, la vendita di un bene abusivo corredato da dichiarazione di regolarità̀ urbanistica e di conformità̀ catastale da parte del venditore, et cetera.
V’è una chiara ed evidente ragione se nessuno abbia mai ipotizzato la responsabilità̀ del notaio in caso di ipoteca iscritta su un bene già̀ usucapito integralmente o parzialmente da un terzo, eppure si tratta di situazioni che si sono verificate con una certa frequenza e in tutto simili a quella dell’ipoteca o di una vendita di un bene assoggettato ad usi civici
L’ufficio del notaio non può̀ estendersi all’accertamento di situazioni di fatto che non siano documentate e rese conoscibili con i sistemi della pubblicità̀ immobiliare, salvo che non vengano direttamente rappresentate dalle parti prima del rogito. Neppure il notaio può̀ conoscere sentenze o provvedimenti amministrativi, se non vengano trascritti o non gli vengano direttamente comunicati dalle parti.
Eventuali richieste da inoltrarsi all’Ufficio Regionale, pertanto, avrebbero la finalità̀ di provocare una mera dichiarazione amministrativa priva di qualsiasi efficacia certificatoria.
Non è condivisibile, in conclusione, la tesi che il notaio debba richiedere informazioni all’Ufficio Regionale degli Usi Civici prima di ogni rogito immobiliare, così come non gli è certamente richiesto di consultare gli archivi di tutti gli Uffici Giudiziari per verificare l’esistenza di sentenze che abbiano incidenza sulla commerciabilità̀ dell’immobile oggetto del rogito o che abbiano magari accertato la nullità o l’esistenza della stessa legittimazione a disporre da parte del dante causa.
Sul piano della colpa, inoltre, deve rilevarsi che il notaio, nelle relazioni richieste in ordine all’assenza di iscrizioni o trascrizioni pregiudizievoli sull’immobile da ipotecare, non certifica mai l’assoluta validità̀ ed efficacia della garanzia.
Il suo compito è solo ed esclusivamente di verificare la corrispondenza formale dei titoli di provenienza, l’assenza di trascrizioni o iscrizioni atte a pregiudicare l’effetto derivativo dell’atto da stipulare, la regolarità̀ urbanistica formale del cespite attraverso le dichiarazioni rese dalle parti, la conformità̀ dei dati catastali e delle planimetrie depositate in catasto allo stato di fatto, sempre sulla base di quanto dichiarato dalle parti.
Generalmente il notaio constata di aver esaminati nel ventennio i documenti e consultati i registri del Catasto e della Conservatoria dei Registri Immobiliari e dichiara, nelle sue relazioni, che risulta rispettato il principio della continuità̀ delle trascrizioni di cui all’art. 2560 cod. civ. e che alla data di riferimento non risultano pesi e oneri.
Quando nelle visure ipotecarie ventennali acquisite dal notaio nell’istruttoria della pratica non vi sia menzione di diritti di terzi o limitazioni, deve ritenersi che il notaio abbia usato la massima diligenza professionale e nulla gli possa essere rimproverato (cfr. in questo senso Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Ordinanza resa ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c. il 18 dicembre 2012, Rep. 3902/2012, nel giudizio RG 4225/2012; Tribunale di Santa Maria Capua Vetere Sentenza n. 2585 del 31.10.2016).
Le verifiche fattuali sulle reali condizioni del bene restano invece onere esclusivo delle parti del negozio. Le parti sono onerate della constatazione della regolarità̀ urbanistica, della effettiva conformità̀ catastale, della eventuale presenza di asservimenti di fatto per destinazione fattane dal proprietario o per attività̀ di terzi che non siano consacrate in atti trascritti e dunque della complessiva situazione possessoria. Tali incombenze generalmente, vengono assolte dalle banche in caso di finanziamenti per acquisti immobiliari, tramite periti chiamati ad istruire le pratiche di mutuo ipotecario. A costoro solamente è affidata ogni valutazione sulla consistenza fattuale della garanzia e la constatazione di eventuali limitazioni o asservimenti preclusivi che non siano menzionati o evincibili dai registri immobiliari.
Normalmente i capitolati di mutuo bancario contengono la clausola che prevede il diritto della banca di dichiarare la decadenza dal beneficio del termine ove ricorrano le ipotesi di cui all’art. 1186 c.c. e di risolvere il contratto ai sensi dell’art. 1456 c.c. qualora la parte finanziata o il garante abbiano taciuto debiti per imposte, tributi, prestazioni di qualsiasi natura e tasse aventi prelazione sul credito della banca ovvero l’esistenza di usi civici, misure sanzionatorie o di altri vincoli o pesi che possano menomare le garanzie. Anche in base al regolamento contrattuale utilizzato in Italia dalla maggior parte delle banche, quindi, l’esistenza degli usi civici è equiparata alle altre situazioni fattuali (debiti, misure sanzionatorie etc.) la cui conoscenza è rimessa esclusivamente alle parti.
Ma anche nella semplice ipotesi che si possa investire il notaio della ricerca di usi civici, detta attività̀ dovrebbe comunque essere limitata ai casi in cui sia quantomeno sospettabile la possibile incidenza di diritti collettivi di quella natura, i quali, com’è noto, presuppongono la totale inedificabilità̀ delle aree interessate.
Una eventuale verifica potrebbe essere richiesta in caso di atti aventi ad oggetto terreni, non certo per rogiti che abbiano ad oggetto fabbricati.
L’art. 27 del D.P.R. 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia) stabilisce che: “ qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, il dirigente provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa”.
Ne consegue che sui terreni gravati da usi civici non solo è assolutamente impossibile edificare, ma l’Autorità Comunale ha anche il preciso dovere di intervenire immediatamente e di procedere alla demolizione e alla rimessione in pristino.
Quando l’atto abbia ad oggetto appartamenti o comunque costruzioni, generalmente fatte oggetto di cessione di diritti superficiari, neppure concepibili in aree gravate da “uso civico” e corredate da istanze di condono edilizio rimaste inevase per anni, la responsabilità soggettiva del notaio deve ritenersi insussistente, indipendentemente dal principio di imprescrittibilità degli “usi civici”.
Con riferimento al danno risarcibile, infine, non può trascurarsi che nelle azioni intentate contro i notai viene generalmente lamentato un danno da perdita della garanzia, impropriamente identificato col valore dell’intero credito dichiaratamente vantato, inclusi, di solito, gli interessi convenzionali o addirittura moratori applicati al mutuo ipotecario.
Invece la perdita di una garanzia non coincide affatto con la perdita del credito.
Di solito neppure risulta prospettata l’incapienza della garanzia patrimoniale generica del debitore, ossia l’impossibilità di riscuotere coattivamente il dovuto con strumenti diversi dal pignoramento del bene ipotecato (cfr. sul tema specifico, Tribunale di Napoli, Sentenza n. 2954 del 29.3.2021).
La perdita di una garanzia non è risarcibile se non nei limiti della infruttuosità̀ dell’esecuzione condotta nei confronti del debitore e sempre facendo valere la compensatio lucri cum damno per effetto dei relativi benefici fiscali che conseguirebbero alle possibili deduzioni.
Paolo Picone