Articolo di Avv. Antonio Viggiano e p. Avv. Barbara Frattini
La recente pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha nuovamente riacceso i riflettori su alcuni dei più dibattuti temi del diritto di famiglia: sino a quando è dovuto l’assegno divorzile all’ex coniuge e come questo debba essere concretamente determinato.
A seguito della ben nota sentenza della Corte n. 18287 del 2018, vero e proprio spartiacque in materia, veniva consacrato il definitivo abbandono della funzione assistenziale dell’assegno divorzile, che sin dall’introduzione della legge sul divorzio in Italia aveva invece rappresentato la concezione predominante.
Veniva così abbracciata una nuova e più moderna interpretazione dell’assegno divorzile, da determinarsi considerando non più il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma valutando aspetti quali il contributo di natura non economica apportato dal coniuge all’interno della famiglia, nonché i sacrifici anche professionali da questo compiuti per supportare l’altro coniuge.
La portata di tale interpretazione viene ulteriormente estesa dalla Cassazione in occasione della sentenza del 5 novembre 2021, con la quale le Sezioni Unite giungono alla conclusione che, se all’assegno divorzile va attribuita una funzione compensativa e non più assistenziale, allora il diritto maturato dal coniuge beneficiario a vedere i propri sacrifici riconosciuti economicamente non può venir meno soltanto perché si è instaurato un nuovo legame con altra persona. Beninteso, sempre che non si tratti di un’unione matrimoniale, data la chiara preclusione stabilita in merito della norma.
Tuttavia, il più rilevante elemento di novità nella recentissima pronuncia è non tanto la reiterazione dell’interpretazione compensativa e perequativa dell’assegno divorzile, quanto la presa di posizione in favore di una modifica delle sue modalità di corresponsione. Ancora oggi la materia è regolata dall’art. 5 l. 898/1970, come modificata dalla l. 74/1987, che prevede la corresponsione di un assegno periodico ed a tempo indeterminato o, quantomeno, finché il coniuge beneficiario non contragga una nuova unione matrimoniale.
Gli ermellini hanno però posto in evidenza come la periodicità e l’indeterminatezza temporale del contributo mal si coniughi con la funzione compensativa e perequativa dell’assegno, ispirata all’ormai abbandonata interpretazione assistenzialista propria di un concetto di famiglia che nel tempo si è dimostrato superato.
Infatti, come la stessa Cassazione ha sintetizzato, «la realtà sociale vede non infrequente il fenomeno del succedersi, per lo stesso soggetto, di più esperienze di vita familiare».
In un contesto familiare che spesso si rivela dinamico e mutevole è apparso irragionevole, finanche agli estensori della pronuncia in esame, l’imposizione un vincolo economico senza termine di durata tra soggetti che, in forza della cessazione degli effetti civili del matrimonio, sono sciolte da ogni legame giuridico.
La soluzione suggerita dagli ermellini è da rinvenirsi in un assegno, sempre di natura compensativa, più sostanzioso ma limitato nel tempo, al fine di consentire al coniuge economicamente più debole il raggiungimento di una propria indipendenza.
Malauguratamente, in assenza di un’apposita normativa che regoli la materia, la strada non appare percorribile nell’immediato, ma potrebbe rivelarsi tale in un prossimo futuro grazie al DDL n.1293 che ha ad oggetto proprio la disciplina dell’assegno divorzile, e che attualmente è all’esame del Parlamento.
In attesa dell’auspicata riforma legislativa, la Cassazione incoraggia un comportamento proattivo dei coniugi e degli operatori del diritto, non soltanto giudici ma anche mediatori professionali, al fine di collaborare «per garantire la pacifica convivenza della pluralità delle formazioni sociali familiari.»