Articolo di Avv. Stefano Mazziotti di Celso
Le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 comma 2 del D.Lgs. n. 165/2001 possono costituire, acquisire ovvero mantenere partecipazioni in società per azioni o a responsabilità limitata, a condizione che le stesse abbiano per oggetto attività di produzione di beni o servizi strettamente necessari al perseguimento delle finalità istituzionali delle PP.AA.
A tali società si applicano le disposizioni di cui al Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica e, per quanto non derogato dal D.Lgs. n. 175/2016, le norme codicistiche sulle società e quelle generali di diritto privato.
È possibile distinguere le società partecipate in senso stretto dalle società c.d. in house. Mentre il modello organizzativo delle prime esprime tipicamente un compromesso tra interessi pubblici e privati, nelle seconde invece la finalità pubblicistica è assolutamente preponderante se non proprio esclusiva.
Nelle società in house il capitale sociale è sottoscritto interamente dal soggetto pubblico, ad eccezione di quelle partecipazioni di capitali privati prescritti dalle norme di legge, i quali però non devono comportare alcun “controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata”. Le PP.AA. svolgono su di esse un controllo analogo a quello operato sui propri uffici interni, quasi come se fossero una loro “longa manus”. Non sussiste tra l’ente e la società un rapporto di alterità sostanziale, ma solo formale[1]. Per statuto tali società devono destinare oltre l’80% del proprio fatturato nello svolgimento dei compiti ad esse affidati dall’ente pubblico o dagli enti pubblici soci.
La galassia delle società partecipate in Italia conta oltre 6.000 imprese attive, con ben 847.000 addetti. Complice la crisi dell’ultimo decennio e l’accusa di ricorrere troppo spesso a politiche assuntive e retributive esorbitanti rispetto alle effettive risorse ed esigenze produttive, tali società sono entrate nel mirino dei recenti interventi normativi volti a garantire la c.d. “spending review”.
Il Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica è stato dunque emanato oltre che con l’obiettivo di garantire un’efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche e tutelare la concorrenza ed il mercato, anche e soprattutto al fine di razionalizzare e ridurre la spesa pubblica.
La gestione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico è disciplinata dall’art. 19 del TUSP, il quale al primo comma stabilisce che ai medesimi rapporti si applicano:
– le norme di cui agli articoli 2082 e seguenti del codice civile;
– le leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa;
– le disposizioni dei contratti collettivi.
La gestione è quindi di tipo strettamente privatistica, salve le sole eccezioni previste dallo stesso decreto n. 175/2016 in materia di reclutamento del personale e di razionalizzazione dei trattamenti economici dei dipendenti.
Al secondo comma dell’art. 19 del TUSP, infatti, è stato previsto che le società a controllo pubblico devono stabilire con propri provvedimenti i criteri e le modalità per il reclutamento del personale, i quali tengano conto e rispettino i principi di trasparenza, pubblicità ed imparzialità, oltre che i principi di cui all’art. 35, comma 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, tra i quali ultimi si segnalano:
a) adeguata pubblicità della selezione e modalità di svolgimento che garantiscano l’imparzialità e assicurino economicità e celerità di espletamento, ricorrendo, ove è opportuno, all’ausilio di sistemi automatizzati, diretti anche a realizzare forme di preselezione;
b) adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire;
c) rispetto delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori;
d) decentramento delle procedure di reclutamento;
e) composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di provata competenza nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell’organo di direzione politica dell’amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali;
e-ter) possibilità di richiedere, tra i requisiti previsti per specifici profili o livelli di inquadramento di alta specializzazione, il possesso del titolo di dottore di ricerca o del master universitario di secondo livello.
Il TUSP, quindi, non impone alle società partecipate di rispettare in fase di reclutamento le procedure concorsuali necessarie per accedere agli impieghi presso le PP.AA. ex art. 97 Cost., ma solo ed esclusivamente di seguirne i relativi “principi” pubblicistici.
Le società a partecipazione pubblica che intendano assumere del personale, pertanto, devono seguire procedimenti che si possono definire “paraconcorsuali”, mentre i dipendenti che sottoscrivano all’esito di tali procedure ad evidenza pubblica un contratto di lavoro non sono conseguentemente assimilabili ai pubblici impiegati proprio perché selezionati non all’esito di un vero e proprio concorso pubblico.
I contratti di lavoro conclusi dalle società partecipate in assenza dei provvedimenti o delle procedure suddette sono radicalmente nulli per violazione di una norma imperativa, fatto salvo quanto previsto dall’art. 2126 del codice civile ai soli fini retributivi. Il potere di giudicare in ordine alla validità o meno dei provvedimenti e/o delle procedure di reclutamento del personale delle società partecipate spetta al Giudice Ordinario, non potendo devolversi la relativa giurisdizione in materia al Giudice Amministrativo.
Ciò che però distingue maggiormente i rapporti di lavoro delle società a controllo pubblico rispetto ai rapporti di lavoro privati è il potere riconosciuto dal TUSP alla parte datoriale di intervenire (anche) unilateralmente sulle retribuzioni dei propri dipendenti.
Al quinto e sesto comma dell’art. 19 del TUSP è previsto, infatti, rispettivamente che “Le amministrazioni pubbliche socie fissano, con propri provvedimenti, obiettivi specifici, annuali e pluriennali, sul complesso delle spese di funzionamento, ivi comprese quelle per il personale, delle società controllate, anche attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni di personale” e che “Le società a controllo pubblico garantiscono il concreto perseguimento degli obiettivi di cui al comma 5 tramite propri provvedimenti da recepire, ove possibile, nel caso del contenimento degli oneri contrattuali, in sede di contrattazione di secondo livello”.
Tale norma va letta in combinato disposto con l’art. 11 comma 6 del medesimo TUSP, il quale stabilisce che “Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze … per le società a controllo pubblico sono definiti indicatori dimensionali quantitativi e qualitativi al fine di individuare fino a cinque fasce per la classificazione delle suddette società. … Per ciascuna fascia è determinato, in proporzione, il limite dei compensi massimi al quale gli organi di dette società devono fare riferimento, secondo criteri oggettivi e trasparenti, per la determinazione del trattamento economico annuo onnicomprensivo da corrispondere agli amministratori, ai titolari e componenti degli organi di controllo, ai dirigenti e ai dipendenti, che non potrà comunque eccedere il limite massimo di euro 240.000 annui al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del beneficiario, tenuto conto anche dei compensi corrisposti da altre pubbliche amministrazioni o da altre società a controllo pubblico. Le stesse società verificano il rispetto del limite massimo del trattamento economico annuo onnicomprensivo dei propri amministratori e dipendenti fissato con il suddetto decreto. … Il decreto stabilisce altresì i criteri di determinazione della parte variabile della remunerazione, commisurata ai risultati di bilancio raggiunti dalla società nel corso dell’esercizio precedente. In caso di risultati negativi attribuibili alla responsabilità dell’amministratore, la parte variabile non può essere corrisposta”.
Le predette disposizioni normative attribuiscono alla P.A. (in generale) ed ai soci pubblici (in particolare) il potere di incidere unilateralmente (in pejus) sulle retribuzioni dei dipendenti delle partecipate, facendo ricadere sulla forza lavoro di queste ultime gli effetti negativi di eventuali perdite di bilancio della società controllata e/o del proprio socio pubblico, o semplicemente per assecondare la scelta – il più delle volte meramente politica – dell’amministrazione socia di tagliare i fondi destinati al personale della controllata al fine di utilizzarli per scopi diversi, magari meno “nobili” rispetto alla remunerazione del lavoro dei dipendenti delle società partecipate.
L’obiettivo del contenimento della spesa – anche del personale – delle società a partecipazione pubblica che il Legislatore ha cercato di perseguire attraverso le predette disposizioni sembra porsi, a parere di chi scrive, eccessivamente in contrasto con le norme regolatrici del diritto del lavoro, soprattutto se si considera che il potere di intervento datoriale sulle retribuzioni dei dipendenti previsto dal TUSP non prevede limiti temporali e/o strutturali e/o funzionali, tali cioè da rendere almeno contenibile e/o sindacabile la modificazione in pejus del sinallagma contrattuale con i propri dipendenti.
A supporto e conferma di tali perplessità va richiamata la mera “possibilità” – e non “necessità” – del recepimento in sede di contrattazione di secondo livello dei provvedimenti datoriali volti al contenimento degli oneri contrattuali, così come stabilita dal sesto comma dell’art. 19 del TUSP.
In altri termini, il Legislatore ha sostanzialmente sminuito, se non proprio degradato, la contrattazione sindacale territoriale o aziendale in un settore così delicato quale quello retributivo ad una mera presa d’atto (laddove “possibile”) da parte delle OO.SS. delle scelte e decisioni unilateralmente “già prese” in precedenza dalla parte datoriale.
Ci si può quindi legittimamente domandare se una simile produzione normativa possa resistere ad un eventuale vaglio di legittimità costituzionale con riferimento rispettivamente agli articoli 3, 4, 39 e 41 della Costituzione.
Avv. Stefano Mazziotti di Celso
[1] T.A.R. Veneto Venezia Sez. I, sent. n. 1186/2019